03/02/2020

Aurora Gentile – Recensione “Psiche” n. 1/2019

Con questo numero di Psiche si conclude l’esperienza di Maurizio Balsamo come suo Direttore, iniziata nel 2014 e, con lui, il lavoro della redazione che lo ha accompagnato in questi quattro anni e mezzo. Condividendo ciò che scrive Balsamo nel suo commiato dai lettori, “che si sia trattato di un interessante e forse unico percorso che ha messo in dialogo la psicoanalisi con altri saperi, interrogando molteplici fenomeni del tempo presente, e contribuendo così a una teorizzazione e a un’estensione della psicoanalisi fuori dai luoghi consueti”, presentiamo ai lettori di R&P quest’ultimo volume, Naufragio con spettatore, che già nella scelta del tema è straordinariamente attuale.

Alla sua realizzazione, come negli altri numeri, hanno collaborato studiosi di varie discipline, critici d’arte e filosofi, storici di diverse università italiane e non, ricercatori, riuniti da Balsamo per la pertinenza dei loro studi con il tema prescelto e psicoanalisti di diversa provenienza istituzionale e di diversi paesi. Corredato d’immagini e riproduzioni di opere d’arte, il numero si propone al lettore come un’autentica e singolare esperienza di lettura, in grado anche di accostare i non specialisti e i non addetti ai lavori.

Allora, un’esperienza editoriale siffatta come si accommiata dai suoi lettori? Non possiamo non pensare all’ultimo numero della Nouvelle Revue de Psychanalyse, il n° 50 dell’autunno del 1994,

L’inachèvement, con cui si concluse quell’affascinante avventura editoriale. Anche quella era una rivista che si voleva interdisciplinare, ma in un senso molto particolare. Non, come scriveva J.B. Pontalis nell’ultimo editoriale, nel senso del raggrupparsi delle discipline in un luogo comune, ma, al contrario, nel senso di affermare le differenze e le singolarità irriducibili di ognuna. La speranza era, scriveva Pontalis, che ognuna col proprio metodo, tracciasse dei percorsi permettendo al lettore, che li scopriva, di disegnarne altri che non erano segnalati sin dall’inizio. Certo, un principio era richiesto, un principio d’indipendenza come guida del progetto, e un partito preso, se si vuole, quello delle parole della lingua comune, con il loro potere d’evocazione quasi infinita. Pontalis scrive che sono parole in definitiva neutre in rapporto ai diversi saperi costituiti, non appartengono a nessuno di essi. Sono invece adatte a provocare dei pensieri, a imprimere loro un movimento, e operare uno spostamento, sia pure lieve, dai concetti ai quali ci agganciamo. Cos’è il presente, Dire di no, Differenze/disuguaglianze, Traduzioni, Distruggere, Il pensiero in tempo di guerra, Sensorialità/sensualità, Il lavoro psichico, Il politico della psicoanalisi, Un sapere congetturale?, sono appunto le parole comuni scelte come titoli dei volumi di Psiche, da Balsamo e dalla sua redazione. Senza dimenticare che per un progetto di questo tipo è necessaria una logica forte per tenere insieme con coerenza i vari contributi, e al tempo stesso per trattare ogni tema nel modo più aperto possibile, permettendo anche di “derivare” un poco durante il montaggio, così da includere argomenti minori che non ci si aspettava.

C’è un bellissimo articolo di André Green, Vie et mort dans l’inachèvement, pubblicato appunto nell’ultimo numero della NRP. Green ci propone di riflettere da un vertice psicoanalitico sull’inconcluso (traduciamo così inachèvement).

Finire, lui dice, vuole anche dire uccidere. L’idea di conclusione, terminazione, è quindi intesa sia come termine di un processo di crescita, sia come arresto definitivo dell’esistenza. Si potrebbe credere che l’idea di fine sia neutra e che possa applicarsi indifferentemente al lavoro della vita o a quello della morte. In quest’ultimo caso, scrive Green, dobbiamo prendere tutta la misura di un silenzio che cade come un arresto, abbandonando al niente ciò che fino a quel momento era animato da una potenzialità di essere.

Naufragio con spettatore allude anche alla fine di un mandato, di un viaggio, di una navigazione. La fine è forse anche in qualche modo un naufragio e chi se ne va smette di essere un testimone. Ma non vi può essere naufragio senza testimone, se narrato (Vigneri).

Ma del naufragio possiamo essere ancora spettatori?

Nessuna condizione di illusoria posizione di sicurezza può oggi consentire l’assistere distaccato e anedonico alle altrui sventure (Francesconi), piuttosto possiamo essere spettatori di parti estranee di noi stessi, attraverso delle navigazioni inquietanti.

 Il numero si apre con un’abbagliante articolo di Duccio Fabbri (regista e aiuto regista), The flying Dutchman, che presenta un film documentario in uscita quest’anno sulla storia dello scrittore Louis Wolfson, a cui partecipa anche Maurizio Balsamo con un’intervista su Wolfson. Queste prime pagine ci parlano di un certo incontro con il reale di un artista tra distruttività e creazione. La sua lettura, in apertura, suggerisce al lettore che il genio melanconico riesce ad accomodarsi con i resti, nella feroce ostinazione a non accontentarsi dell’indifferenza compatta delle reciprocità quotidiane. Un modo di essere il testimone, il guardiano e a volte l’eroe di questa parte maledetta, avvelenata, dell’umano.

Franco Rella in Lo sguardo del testimone, concorda con Montaigne, che ha definito il piacere dello spettatore come “una voluttà maligna”, ma dei terribili eventi della storia possiamo dirci spettatori o testimoni? In realtà ci siamo ormai lasciati molto alle spalle lo spettatore, ma abbiamo bisogno di testimoni, “la mente del testimone, indaga, accorda disunisce”, cercando di scoprire “il punto morto del mondo, l’anello che non tiene/il filo da disbrogliare che finalmente ci metta/nel mezzo di una verità (Montale). Ma si può testimoniare la disumanizzazione estrema, come in Kafka, grande testimone della disumanizzazione?

Nella riflessione di Rosalba Maletta, Volker Braun e Paul Celan, figure del naufragio nella letteratura tedesca, l’autrice si chiede: “Ponendo in tensione reciproca, variabilità e identità del mito, così come li presenta Blumenberg, in un mondo di correlazioni predittivamente calcolate, nell’euforia della vittoria sul caso (la tuke), dove il passato determina il futuro e non c’è spazio per l’après-coup (Balsamo, 2009), è ancora possibile fare opera di testimonianza?” (46). Con i poeti, Holderlin e Celan, Maletta pensa al naufragio di tutto un paradigma di pensiero posto a fondamento dell’ontologia occidentale, un naufragio irrapresentabile, ancora da lavorare e perlaborare. Il varco che può aprirsi pertiene alla costruzione, “modo di contattare ciò che è andato perduto”…”tentativo di proporre un senso possibile, una forma narrativa, a ciò che è senza parola” (Balsamo, 2018, p.397). Anche dopo “il massacro delle illusioni”, il naufragio delle illusioni, il poeta rimane in trincea, con quella linea di poeti civili che dall’Illuminismo, passando per Carducci, giunge a includere Pasolini. Per il poeta, testimone del naufragio, chi testimonierà?, scrive Blanchot nel suo commiato dall’ “amico” Paul Celan in L’ultimo a parlare.

Nella sezione “Saggi”, il contributo di Pomara Saverino, professore di Storia moderna a Valencia, Sui rifugiati e altre categorie, ricostruisce la questione morisca in Spagna, e le sue ripercussioni anche in Italia, per mostrarci che termini come rifugiati, o “profughi” non sono categorie esclusive della contemporaneità. Questo è uno dei fuochi tematici di questo numero ed è ripreso anche in altri contributi. La situazione storica oggi è diversa da quella che storicamente conosciamo? Migranti e rifugiati, ieri come oggi, occupano lo spazio simbolico dello straniero definito come indesiderabile. Si trovano in una situazione-frontiera e la loro esperienza del mondo è il tentativo di passaggio delle frontiere. In queste esperienze, l’antropologia psicoanalitica incontra la segregazione e l’autosegregazione del soggetto, temporalità eterogenee e sviluppi separati (Assoun, 2015). Può il soggetto in condizione di esilio, creare “familiarità”, quando ha perso la possibilità di regolarsi sull’immagine simile degli altri? Come costruire una memoria intorno a un’assenza?

Nella sezione “Dialogando”,Malde Vigneri intervista Roberto Alajmo, scrittore palermitano, autore del libro L’estate del ’78, (Sellerio, 2018). L’intervista contiene una certa combinazione magica d’informalità e di rigore. Alajmo, nel suo libro, si fa testimone di un passato, dei modi in cui lo si può reiventare o ripristinare alla memoria, per quanto doloroso e drammatico sia: la perdita della madre, il suo suicidio. L’autore appare al tempo stesso spettatore e testimone della tragedia, ma si può prendere commiato veramente da chi abbiamo perso, specialmente in modo così traumatico? E i traumi che ci hanno segnato possono influire sulla nostra capacità di affrontare la nostra vecchiaia e l’idea della morte?

 Il “Dossier”è dedicato al tema: Il sublime e il reale. Per l’evento The real thing, tenutosi a Londra il 3 settembre 2010 alla Tate Britain di Londra, Urbanomic, casa editrice e organizzazione artistica con sede nel Regno Unito, ha riunito un gruppo di scrittori e filosofi, al fine di creare nuove etichette interpretative per la collezione di dipinti riuniti sotto il titolo Arte e sublime. Dal 2006, Urbanomic ha avuto un ruolo cruciale nella creazione di nuovi movimenti nel pensiero contemporaneo. Di fronte al naufragio, un mondo pensa con la filosofia, che si tratti di un artista, di uno scienziato, o chiunque sia, per evitare questa sorta di divorzio catastrofico dal mondo.

Complessivamente si può dire che nella relazione tra reale e sublime nessuna rappresentazione è sufficiente, finale, definitiva. Gli artisti d’avanguardia, come scrive Lyotard, conducono (noi) fuori dall’anelito romantico giacché essi tentano di rappresentare l’irrappresentabile non come un’origine o uno scopo perduti nella lontananza del soggetto della pittura, ma nella nostra prossimità, nelle condizioni dell’opera artistica stessa. Il loro sublime difficilmente è nostalgico; è piuttosto indirizzato all’infinità degli esperimenti plastici ancora da farsi anziché alla nozione di un assoluto perduto. La posta in gioco non sarebbe più la rappresentazione, ma la la possibilità d’intensificare la capacità affettiva che potrebbe accoglierla, di presentare che c’è dell’irrapresentabile. (Lyotard, 1988).

Nella sezione “Interventi”Psiche ospita diversi contributi che possiamo intendere come variazioni basate sul tema del naufragio con spettatore (o senza spettatore). Non mancano ovviamente testi di più chiaro stampo psicoanalitico. Alla metapsicologia freudiana e alla clinica psicoanalitica, sono dedicati i saggi: La nave della prima colazione e altri naufragi di Nelly Cappelli, Naufragi psichici di Fabio Fiorelli, Naufragio (del Sé) con spettatore interno di Marco Francesconi, Catastrofi e spettatori, L’intima interfaccia tra inconscio non rimosso e processi incoscienti di Riccardo Lombardi.

In coda al volume, nella sezione che accoglie le “schede di lettura”, Marco Pacioni legge La “Melencholia I” di Durer Una ricerca storica delle fonti e dei tipi figurativi di Erwin Panofsky e Fritz Saxl (Quodlibet, 2018). Oltre a ricostruire le diverse interpretazioni della melanconia, antidialettica, oppositiva e sacrificale in Panofsky e Saxl, e dialettica perchè risultato della diversa combinazione quantitativa dei medesimi elementi in Benjamin, Pacioni commenta che un’analoga contrapposizione riguardo la melanconia è venuta a manifestarsi nella psicoanalisi, come dimostra anche il recente libro di Christopher Bollas, L’età dello smarrimento. Senso e malinconia, nel confronto tra due posizioni, l’una che della melanconia coglie soprattutto l’aspetto luttuoso, come avevano fatto Panofsky e Saxl, l’altra che tende piuttosto a metterla in relazione con il perturbante. Pacioni osserva che “Sotto il segno di Freud, questa differenza può essere inquadrata attraverso quella tra sublimazione e perturbante. Lo spettatore della sublimazione è colui che non è turbato dalla distruzione che ha davanti, lo spettatore colto dal perturbante è quello che avverte che la situazione di distruzione e di naufragio che ha davanti, ha riguardato in un tempo imprecisato anche lui” (p. 328). E tuttavia, come scrive Jean Guillaumin in La sublimation et la souffrance, (Guillaumin, 2004), la sublimazione implica la sofferenza, per fare il lutto della cosa in ciò che essa ha d’irrapresentabile in seno stesso alla rappresentazione, quella di un apparato psichico che è lacerato da un venir meno di appoggio alla pulsione per il fallimento degli altri destini pulsionali. Probabilmente nessuna sublimazione si compie senza una parte d’entusiasmo segreto o manifesto che colloca chi la produce un po’ al disopra del reale. Ma questa parte di elevazione, indispensabile alla sublimazione, con forme diverse e più o meno evidenti, ha in definitiva la funzione di proteggere il soggetto, e nella vita sociale, forse l’intero gruppo, dal soccombere agli inevitabili fallimenti nella regolazione del rapporto tra il dentro e il fuori e ai movimenti di tipo depressivo che comportano, cercando di fronteggiare il vuoto intimo di una parte disorientata dell’apparato psichico. Davanti al naufragio, la sublimazione certo risponde anche al bisogno di rassicurazione ma, in definitiva, attinge all’ideale e all’infinito, senza esaurirsi in essi, per ripristinare e mettere al riparo gli investimenti disorientati.

Riferimenti bibliografici

Blanchot M. (1984), L’ultimo a parlare, Orthotes, Napoli-Salerno, 2019

Guillaumin J., La sublimation et la souffrance, in La Sublimation, Paris, In Press, 2004

Lyotard, J.-F., « Le sublime et l’avant-garde », in L’inhumain, Paris, Galilée, 1988 (1 ed.)

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