Resti, tracce, anacronismi: qualche riflessione
Aurora Gentile
“Mi sembra che la questione del “resto” sia divenuta negli ultimi anni, un elemento rilevante nel dibattito teorico (penso ad esempio a un libro come quello di Agamben, intitolato proprio “Quel che resta di Auschwitz”, o all’interpretazione che un filosofo come Balibar, al seminario di Françoise Héritier al Collège de France sulla violenza, ha dato della crudeltà, intendendola come un “resto” ineludibile dei processi di simbolizzazione). Ovviamente qui “resto significa molte cose: dimensione non tematizzabile e non ancora pensabile, scarto della teoria, residuo inelaborato, rappresentazione stessa del decentramento e dell’inappropriabilità soggettiva che lo statuto dell’inconscio ci impone[1]”…
Le mie riflessioni partono da qui, che la questione dei destini dei resti s’impone come una delle problematiche maggiori della situazione analitica: resti dei processi di simbolizzazione, del lavoro del lutto, della teorizzazione stessa in psicoanalisi[2] e che, al tempo stesso, è proprio la consapevolezza della loro necessaria permanenza che ci sottrae al delirio di un sapere assoluto e di una perfetta metabolizzazione delle nostre esperienze dolorose, in definitiva che ci dà la possibilità di accogliere i limiti e praticare l’idea della morte.
Cercavo una pista che poteva avvicinarmi alla comprensione della “positività” del resto, al suo ruolo fondamentale nell’economia psichica soggettiva, per sfuggire alla psicosi e alla melanconia, e nella nostra pratica clinica, “pratica della traccia”, come la definisce Assoun[3], anche per sottrarre la psicoanalisi ad un “presentismo”[4], al qui e ora dell’incontro, al quale alcune delle sue correnti attuali vorrebbero ridurla.
In un articolo sui poteri del negativo[5] Roussillon avanza una riflessione, a partire dall’analisi dei testi freudiani dal 1918 al 1925, che getta un ponte tra reste-déchet (resto il cui ritorno è distruttivo dello stesso processo da cui si origina) e reste-utile, intendendo con questo un modello di trattamento del resto che egli individua nella metafora freudiana della cellula, del protista[6]: il modello dell’organizzazione cellulare, che demetaforizzato, Freud utilizzerà in Il problema economico del masochismo[7], formulando che l’organizzazione di una topica psichica, ben differenziata, permette che ciò che è cattivo – rifiuto, dispiacere – per un sistema psichico possa essere buono – piacere – per un altro. In questo modo, scrive Roussillon, il resto-rifiuto può diventare resto-utile, anzi un piacere del resto diventa concepibile. Il negativo di un processo può essere positivo per un altro, il negativo può essere investito positivamente.
Per Roussillon, in ogni modo, a determinare i destini del resto del processo di simbolizzazione della separazione originaria, sarà la qualità del medium-malleabile, trovato nella realtà esterna dall’infans, e potenzialmente creabile da questi, affidando così alle alee dell’oggetto trovato-creato la possibilità di un trattamento del resto, che potrà essere fecondo per il soggetto.
Io non voglio qui riprendere questi commenti ormai classici, ma piuttosto utilizzare la riflessione di Roussillon come base di partenza, per l’esplorazione del “resto” nella separazione, nella perdita e nel lavoro del lutto.
Laplanche, in Il tempo e l’altro[8], descrive il lavoro del lutto come ripetitivo, che richiede del tempo, predispone una riserva. Addentrandosi nell’analisi del secondo saggio di Totem e tabù “Il tabù e l’ambivalenza emotiva” richiama il nostro interesse sulla nozione di réserve. “Riserva spaziale: vi sono nel territorio del clan delle aree in cui non si ha diritto di entrare, degli spazi nei quali non sconfinare, degli oggetti e delle persone da non toccare, riserva temporale, giacchè vi è un tempo del tabù, spazio vuoto che non si costituisce dunque soltanto nell’area della riserva, ma anche nel tempo, riserva linguistica, cambiare il nome, impedimento di fare la storia, messa da Freud in relazione con la volontà di confondere le carte, interrompere le tracce, ma anche prendere atto di un limite del lutto (il nome non è metabolizzabile)”.
Scrive Laplanche: “Benchè le società con un cambiamento dei nomi continuo ed assoluto siano al limite appena concepibili, questo ci fa cogliere tuttavia in che modo, mediante il tabù, sia predisposto uno spazio di non lutto all’interno del quale sia possibile il lutto, il lutto di tutto il resto. Il tabù apre pertanto la questione più vasta: nella perdita che cosa è metabolizzabile e che cosa non lo è?”[9].
La sopravvivenza di tracce protette dal tabù, che il tabù si può dire isola, è, seguendo questa pista della riflessione di Laplanche, la possibilità stessa che il lavoro del lutto, di tutto il resto, proceda, mentre nella riflessione di Roussillon si trattava piuttosto dell’organizzazione dei resti (nella metafora del protista la cellula isolata che cambiando di bagno, unendosi ad altre cellule, genera nuove combinazioni) che consentiva una loro metabolizzazione.
Eppure proprio l’instaurazione del tabù sembra attestare la necessità dell’estromissione di qualcosa che diventa il limite e il garante delle operazioni di rilancio del lavoro di simbolizzazione e anche il limite del sistema desiderante[10].
Sarebbero proprio queste riserve protette, nel tempo, nello spazio, nel linguaggio stesso, ad offrire la possibilità di sfuggire all’esito melanconico, trattamenti possibili di tracce che ci autorizza a pensare alla loro sopravvivenza come a qualcosa che funziona per il soggetto come un ancoraggio necessario, qualcosa insomma di così profondamente radicato che ad estirparlo, si finirebbe per portare via la stessa struttura che vi aderisce[11]. Si potrebbe pensare ad una strategia narcisistica di patteggiamento, un modo di trattare con la perdita, organizzandone una razionalità, nella lotta dell’Io per la propria autonomia desiderante.
“Se, come suggerisce Freud, il lavoro del lutto deve condurre l’Io, alla fine di una ribellione ad accettare il rigoroso verdetto della realtà, il residuo, la reliquia, prende senso nel desiderio di conservare qualcosa da cui ci si separa, senza peraltro rinunciare a separarsene.
La reliquia realizza il compromesso illusorio di cui l’uomo si serve per resistere all’angoscia di morte e, in questo modo, non giungere mai davvero a far coincidere una rappresentazione della morte con la necessità – divenuta destino – di un non più. L’angoscia di morte pone, quanto alla sua risoluzione, tutta la questione di un resto possibile inalterabile e indistruttibile, che si conserva al di là di ogni separazione”, è quanto scrive Pierre Fédida nell’articolo La relique et le travail du deuil[12], dove il culto della reliquia ha la funzione di preservare dalla perdita completa e definitiva.[13]
Vorrei fare un breve riferimento ad un mio paziente in analisi da tre anni.
Sua madre lo ha atteso dopo il matrimonio per dieci anni. Finchè non è nato, ingannava l’attesa giocando alle bambole, ne aveva diverse, tutte a grandezza quasi naturale e confezionava per loro dei vestiti.
Quando lui è nato, ha iniziato a cucire abiti per lui, e poiché il bambino era fragile, usava anche durante l’inverno, il paziente è nato in una piccola provincia del nord dell’Italia, imbottirgli i pantaloni e le giacche, con giornali e cellophane, che cuciva all’interno a mò di fodera.
Funzionario della Provincia di Napoli, egli si occupa del Cerimoniale, vale a dire dei vari stili prescritti nelle differenti occasioni ufficiali, nella scrittura di lettere e comunicazioni, ecc. Ama le divise, le feste in maschera, ama andare dovunque possa travestirsi. E’ la sua passione e il tratto che sente più suo, che lo distingue, al quale si ispira: presentarsi sempre con il vestito appropriato, “l’abito blu” lo fa sentire a posto e gli fa posto nel mondo dove certo per il resto non si sente a suo agio.
Ora, l’aspirazione a fare il Maestro di Cerimonie non è nel suo idioma una particolare fedeltà ad un desiderio che lo abita, è il caso di dire, e che lui ha reinvestito e trasformato in un resto-utile, anche un piacere del resto?
E’ omosessuale e affetto da un corteo di disturbi somatici non gravi ma molto invalidanti, ed è per questo che è venuto in analisi. Vi si è trovato ben presto a suo agio, probabilmente perché vi ha trovato qualcosa in risonanza con questo suo gusto per le recite e i rituali.
E’ soltanto però ad un certo punto della sua analisi che “l’abito blu” ha acquistato visibilità, come affiorando da uno sfondo indistinto, per scoprire, seduta dopo seduta, che dentro il suo abito lui può reggersi, letteralmente, quando lo prende l’angoscia di un’insorgenza improvvisa, per esempio di una colica intestinale. Il suo bel vestito si staglia sul fondo materno, ma anche in opposizione ad un padre sempre sporco, dato che si occupava della pulizia degli orti e dei condomini del paese.
Ora, c’è qualcosa che ritorna in tutta la sua vita fin qui, l’elemento del cerimoniale, intorno al quale ha costruito le sue scelte professionali, orientato i suoi gusti, e anche sofferto molto.
Ora, si potrebbe anche sostenere che tutta la sua vicenda infantile era fuori memoria, più nessuna traccia dei sentimenti di allora, quando ridotto ad un manichino era costretto a muoversi goffamente tra i suoi coetanei, unico, come lui dice, a portare i paraorecchi d’inverno. Per tre anni, in effetti, a parlare per lui erano i suoi bruciori di stomaco, il riflusso esofageo, l’attorcigliamento della curva splenica, la dissenteria: paziente cosiddetto “psicosomatico”, si può anche giustamente sostenere che soltanto all’interno della “relazione”, nella misura in cui sono stati accolti i suoi “bisogni”, ha potuto accostarsi ad una pensabilità di quelle oscure regioni.
Ma il “Cerimoniale” resisteva, e si ripeteva in seduta con il suo modo particolare di entrare nella stanza, il saluto che mi rivolgeva e perfino il suo disporsi sul divano: ”en même temps au dehors du sujet (de ses efforts de metabolisation) et nécessité fondamentale pour le mantien de son identité, de sa jouissance”, come scrive Balsamo in Freud et le destin[14]: per quanto fosse a disposizione, visibile ed osservabile in un certo senso, era come a dimora, ai margini dei ben più palesi sintomi somatici.
Pensavo a quanto scrive Nicole Loraux, in un articolo che è appunto L’elogio dell’anacronismo[15], in cui invita lo storico a fare attenzione a ciò che si ripete, al ripetitivo come forma particolare dell’anacronismo: a margine, qualcosa che “spinge” all’interpretazione[16]: nel caso del mio paziente, il trattamento desoggettivante subito da parte dell’altro materno (ridotto ad un manichino).
Allora, a partire da questa forma che si ripeteva, ritorno di una traccia mnestica erratica sullo sfondo dei suoi sintomi somatici[17], abbiamo cercato di ritrovarne il pathos, in un montaggio[18] dei tempi, che ha reso possibile una messa in storia della sua vicenda biografica, intendo dire che questo apparteneva alla sua realtà di allora, anche se è attraverso il transfert, evento del presente, che essa ha potuto trovare una sua ritrascrizione.
Qualche tempo fa, mi parlava di un libro appena uscito sulla basilica di Cimitile (in provincia di Napoli), Cimitile da Coemeterium, vasta necropoli pagana del II sec. d.C.
E’ la storia delle sante reliquie di San Felice, patrono di Nola.
Quello che è particolare è come il paziente ha utilizzato la storia per metaforizzare l’elaborazione in corso nel lavoro d’analisi.
Ed ecco il suo racconto. Si tratta di riti e consuetudini paleocristiani… Il sepolcro del santo, particolare che lo ha attratto, presenta due fori attraverso cui i fedeli versavano latte e miele, residuo di una credenza di vita oltre la morte. Poi, ad un certo punto della storia, i Longobardi s’impadronirono dei resti che furono così dispersi in varie zone d’Europa. Il sepolcro saccheggiato, rimase abbandonato per secoli, finchè nel 1955 ci fu la riscoperta, consentendo il recupero d’importanti e preziosi dati per la ricostruzione della vita del santo. Interessanti sono le sue associazioni sul latte e miele che gli fanno venire in mente i farmaci che prende per l’ernia iatale, il riflusso esofageo e la dissenteria, ma anche le sue frequentazioni delle saune o delle disco gay.
La storia della disparizione delle sante reliquie si svolge tra Bergamo e Piacenza, sue città natali, e l’incrociarsi attraverso i nomi delle località tra la sua storia personale e quella che racconta di aver letto, lo diverte, soprattutto per quello che lui intravede come happy end: il recupero dei resti, la loro ricomposizione, la possibilità di un rilancio delle ricerche e di nuovi approfondimenti. San Faustino, nuovo nome di San Felice, divenuto oltretutto patrono dei single, ritorna alla luce.
Penso che sia molto importante rendere attento l’analista alle forme che prende la ripetizione, agli anacronismi in atto, anche quando si tratta di dettagli sommersi da altre evidenze cliniche. Nel caso del mio paziente, groviglio di sofferenze corporee, per il quale il corpo stesso era un intruso, soltanto dentro la sua elegante silhouette lui era in grado di poter dire Io, ed è a partire da questo “resto” che è stato possibile un lavoro analitico.
Ho trovato interessante su questi temi un numero della Petite bibliothèque de psychanalyse Humain/déshumain, Pierre Fédida la parole de l’oeuvre[19], non soltanto perché vi è trascritto l’ultimo seminario di Fédida (Saint’Anne 2001/2002)[20], ma anche per la discussione cui hanno contribuito, con voci diverse, vari altri psicoanalisti, che hanno espresso con chiarezza, e secondo vertici differenti, molte delle domande che mi ero posta.
Resti, tracce, sopravvivenze, anacronismi, qual è la sfera dei significati che questi termini hanno in comune? Questo interrogativo apre molteplici prospettive nella cura, e ci mette in dialogo con campi del sapere diversi dal nostro che può aiutarci a non chiuderci nel nostro pensiero e nell’esercizio di una pratica ripiegata su se stessa.
Alle voci del seminario del libro, nelle mie riflessioni, ho aggiunto appunto quella di Didi-Huberman, nei suoi notevoli lavori Devant le temps[21] e Ninfa Moderna[22], perchè è come se l’avessi sentita consonante ai pensieri che Fédida espone nel seminario: là dove c’è l’oblio, la disparizione, la cancellazione delle tracce (sottotitolo del seminario) le immagini, categoria anacronica della temporalità, come interlocutrici del sintomo.
In questa “metapsicologia dell’assenza”, lo psicoanalista non è più l’archeologo, per riprendere la metafora archeologica così cara a Freud, che risuscita un oggetto distrutto e sepolto, sia pure per simbolizzarlo nel vivo del soggetto.
Le tracce di queste zone di disparizione, di cancellazione, infatti, sono ancora più effimere, evanescenti, qualcosa (si) è passato, ma non ne resta che un’immagine, che rende conto di una temporalità molto particolare d’oblio e sopravvivenze, spirali e anacronismi[23]. La relazione dell’immagine col tempo è nel suo movimento. Dobbiamo abbandonare il cantiere dell’archeologo “vecchio stampo” e spostarci verso una scienza archeologica del pathos antico[24]. Le Pathosformeln di Warburg sono da considerare come espressioni visibili di stati psichici che le immagini avrebbero per così dire fossilizzato.
E’ interessante seguire questi percorsi che parallelamente in effetti, a me sembra, segnalano una riflessione che mira a rendere conto dei resti della simbolizzazione, delle tracce che ne residuano, due percorsi metaforici: nel primo caso, l’oggetto archeologico da ricomporre come in un puzzle attraverso una procedura di Costruzione, evoca un procedimento di scavo e di scoperta di qualcosa che c’è, grumo di realtà, per quanto sepolto, nell’altro, l’immagine sembra il risultato di un lavoro di metaforizzazione che ha piuttosto “relazione con l’ignoto”[25], entrambi i percorsi sono intrecciati col Tempo: Pompei è l’emblema dell’oggetto rimosso, in un’equivalenza con l’infanzia, in un blocco di lava affascinante (l’espressione è di Assoun)[26], di “Ninfa”[27] non cogliamo che il “soffio indistinto”[28].
Se, una metafora prende la sua dimensione per quello che essa rivela, o addirittura crea, di una relazione tra due termini, il ricorso al termine “proprio” o “materiale” non essendo che un mezzo per suggerire un rapporto con un termine “figurato”, ci si può domandare quali relazioni generino tali metafore in quanto “sostegno del pensiero della “cosa”.[29]
In un libro di qualche anno fa[30], Malcon Bowie, uno studioso inglese di psicoanalisi e di letteratura francese, ha richiamato l’attenzione sulla metafora archeologica, sulle caratteristiche dell’oggetto archeologico nel testo freudiano. Per il Freud dell’Etiologia dell’1steria[31] Saxa loquuntur!: si tratta di una cosa a tre dimensioni, tangibile, maneggiabile, una “antichità”, un pieno semantico ed epistemologico…come Pompei, e anche quando i modelli e le metafore archeologiche di Freud ricevono a volte il sostegno d’elementi delle vicine scienze della geologia o della paleontologia[32], il viaggiatore attraverso il tempo e le epoche si propone di trovare un ancoraggio nelle “condizioni di formazione” che determinano l’origine, anche se questa soltanto nella posteriorità, nella nachträglichkeit, riceve il suo significato, peraltro sempre sottoposto ad ulteriori e possibili riscritture, vale a dire che la concezione psicoanalitica dell’effetto del passato sul presente non può essere ridotta ad una rappresentazione unilineare della storia del soggetto, ma neanche può essere negata riducendola ad una “creazione” di un passato da parte del presente. L’archeologia, la geologia e la paleontologia, utilizzando la stratigrafia per mettere in ordine i materiali, propongono, tutte e tre, l’immagine di un tempo reso leggibile negli strati di deposito dei materiali, materiale psichico duro, indistruttibile, originale, che nella metapsicologia freudiana è il sessuale infantile.
Ora, l’”oggetto” immagine è bidimensionale, intorno all’immagine c’è il vuoto, è l’estetica del vide, che rimanda ad un “pensiero dell’inesistenza”[33] sul quale Fédida c’invita a riflettere nella clinica dei casi ritenuti difficili (personalità limite, patologie narcisistiche, sacche autistiche nelle nevrosi, depressioni ecc.):
“Non è semplice ricostruire la mancanza o la perdita – le loro poste in gioco – esattamente là dove esse si sono prodotte”. Citando Winnicott e l’articolo La paura del crollo[34], egli scrive che ci troviamo qui al cospetto di una “metapsicologia negativa che implica di depositivizzare i contenuti spaziali di riferimento topici e di rendere paradossale il tempo grazie al quale il concetto è tecnicamente riconosciuto”.
Altrimenti detto, ciò che conta principalmente, è che l’analista inventi una “topica temporale paradossale che valga come costruzione tecnica operatoria: se lui cerca, ascoltando il paziente, di dare un contenuto positivo al crollo o al vuoto, egli è di fatto portato a rappresentarsi un traumatismo localizzato in una zona psichica determinata e temporalmente realizzato in un passato antico della vita –il che provoca un’impasse terapeutica. Se, al contrario, il suo ascolto è regolato sull’insistenza ripetitiva della minaccia in attesa, come sospesa nella sua imminenza, egli intende il già avutoluogo-da nessuna parte-mai ed è la minaccia dell’imminenza che sopraggiunge, a dare potere metaforico al crollo o al vuoto”, trasformandolo, scrive sempre Fédida, “nel negativo necessario alla creazione nella cura”[35].
La chiave di volta, allora, di questa complessa opera di metaforizzazione è l’invenzione di una topica temporale paradossale[36]:
“Nel mio articolo “Passé anachronique et présent réminiscent[37]”, ho tentato di modificare una condizione di approccio al tempo nella psicoanalisi. La mia attenzione al sito del linguaggio nell’analisi e all’épos della situazione mi ha portato ad interrogarmi sull’anacronistico e dunque su un passato che non sia l’orizzonte di anteriorità di un presente. Questo al presente del sogno, del transfert…definisce una funzione dell’interpretazione più locale che temporale[38]”(corsivo nel testo).
E’ in gioco il passato. Il fatto è che contro l’idea di una “distruzione della traccia di memoria”, implicante un “annientamento”, dobbiamo porre il principio che “nella vita psichica, nulla può perire una volta formatosi, che tutto in qualche modo si conserva e che, in circostanze opportune, attraverso per esempio una regressione che si spinga abbastanza lontano, ogni cosa può essere riportata alla luce”[39]. Ed è con una fantasia che Freud ci aiuta a pensare a questo:
Gli storici ci insegnano che la Roma più antica fu la Roma quadrata, un insediamento cintato sul Palatino. Seguì la fase del Septimonium, una federazione degli insediamenti sui diversi colli, poi la città fu delimitata dalle mure serviane e, più tardi ancora, dopo tutte le trasformazioni del periodo repubblicano e del primo periodo imperiale, la città che l’imperatore Aureliano recinse con le sua mura (…). Facciamo ora l’ipotesi fantastica che Roma non sia un abitato umano, ma un’entità psichica dal passato similmente lungo e ricco, un’entità, dunque, in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato consistenza è scomparso, in cui accanto alla più recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti. Nel caso di Roma ciò significherebbe quindi che sul Palatino i palazzi dei Cesari e il Septimonium di Settimio Severo si ergerebbero ancora nella loro antica imponenza, che Castel San’Angelo porterebbe ancora sulla sua sommità le belle statue di cui fu adorno fino all’assedio dei Goti, e così via. Ma non basta: nel posto occupato dal Palazzo Caffarelli sorgerebbe di nuovo, senza che tale edificio dovesse essere demolito, il tempio di Giove Capitolino, e non soltanto nel suo aspetto più recente, quale lo videro i romani dell’epoca imperiale, ma anche in quello originario, quando ancora presentava forme etrusche ed era ornato di antefisse fittili. Dove ora sorge il Colosseo potremmo del pari ammirare la scomparsa Domus aurea di Nerone; sulla piazza del Pantheon troveremmo non solo il Pantheon odierno, quale ci venne lasciato da Adriano, ma, sul medesimo suolo, anche l’edificio originario di Marco Agrippa; si, lo stesso terreno risulterebbe occupato dalla chiesa di Santa Maria sopra Minerva e dall’antico tempio su cui fu costruita. E, a evocare l’una o l’altra veduta, basterebbe forse soltanto un cambiamento di direzione dello sguardo o del punto di vista da parte dell’osservatore[40]:
Ogni avvenimento, dal momento che ha attraversato lo spazio di quell’essere in divenire che è l’infans, sarebbe suscettibile di attualizzarsi indefinitamente…Eppure quale impegno è richiesto al lettore, o all’analista, quale sforzo immaginativo, per rappresentarsi formazioni psichiche che nell’evoluzione si succedono e si sostituiscono le une con le altre, continuando ciononostante a convivere immutabilmente, opposte e coesistenti! E al tempo stesso, non è il desiderio infantile che le anima, per Freud il desiderio infantile di conquistare Roma?
La ricerca del passato scaturisce da un desiderio, ma, in modo circolare, si tratta di un desiderio esso stesso sepolto nel passato.[41]
In effetti, quella che viene richiesta, non è una capacità di ascolto visuale?
E’ un mondo di pietra, con le sue colonne, i suoi fregi, le sue sculture, ma è anche un mondo d’aria, vale a dire che ha la densità dei castelli di sabbia dei bambini, “castelli in aria”, dove si addensano le temporalità del presente, del passato e del futuro della memoria e del desiderio.[42]
“Non dobbiamo immaginarci i prodotti di questa attività fantastica, e cioè le singole fantasie, castelli in aria, sogni ad occhi aperti, come rigidi e immutabili. Si adattano invece alle variabili impressioni offerteci dalla vita, mutano ad ogni cambiamento della nostra posizione, da ogni nuova vivace impressione traggono per così dire un “contrassegno temporale”. Il rapporto della fantasia col tempo è in genere molto significativo. Si deve dire che una fantasia ondeggia quasi fra tre tempi, i tre momenti temporali della nostra ideazione. Il lavoro mentale prende le mosse da un’impressione attuale, un’occasione offerta dal presente e suscettibile di risvegliare uno dei grandi desideri del soggetto. Di là si collega al ricordo di un’esperienza anteriore, risalente in genere all’infanzia, in cui quel desiderio veniva esaudito; e quindi crea una situazione relativa al futuro la quale si configura come appagamento di quel desiderio: questo è appunto il sogno ad occhi aperti o fantasia, recante in sé le tracce della sua provienienza dall’occasione attuale e dal ricordo passato. Dunque passato, presente e futuro, sono infilati al filo del desiderio che li attraversa”.
Le riflessioni di Fédida sul presente reminiscente e il passato anacronistico sono molto vicine a questi testi.
Forse Fédida, quando sostiene che la ricostituzione del passato, “costruzione” o “ricostruzione” dal punto di vista di Freud nel saggio Costruzioni nell’analisi[43], non è possibile quando ci troviamo di fronte all’annientamento psichico, perchè in certe situazioni non ci sarebbe nessun elemento per farne una ricostituzione nel senso storico, niente più resti, né memoria, né archivi[44], cerca la rifondazione di una situazione psicoanalitica sempre minacciata dalla sua “familiarizzazione” o dall’inflazione dei processi secondari.
Da questo vertice, la sua opera è preziosa per rappresentare “il potere che ha il materiale psichico di trasformare chi lo riceve, e illuminare le modalità di regressione dello psicoanalista”[45], vale a dire le sue capacità di regressione topica e formale.
Ma non possiamo fare a meno di riprendere le osservazioni di Jacques Andrè in dibattito con il Seminario al quale facciamo riferimento, circa un versante paradossale che egli sottolinea nelle parole di Fédida, proprio a partire dall’inizio della navigazione teorica alla quale ci ha invitato:
“La questione che io cerco di circonscrivere è questa: la psicoanalisi freudiana che, da un lato, ci offre tutti i mezzi per pensare liberamente un’evoluzione dei termini della metapsicologia, non rischia piuttosto di richiuderci dentro una problematica dell’oggetto e della perdita? Questo pone al cuore di questo discorso la melanconia: il posto della melanconia è centrale nella psicoanalisi. Forse la melanconia è differente dal lutto perché comporta l’esperienza della disparizione”[46].
Per André la melanconia è il vero focus di questo discorso teorico, e come nel primo testo che Freud consacra alla melanconia, nella minuta G[47], sembrerebbe che la “contrazione nello psichico” aspiri, in una sorta di emorragia interna, tutte le sue incidenze e le sue aperture.
Questo mi fa pensare all’inizio di questo mio lavoro, alla “positività” dei resti, all’importanza degli anacronismi in atto, al valore della reliquia, tutto questo per giocare con la morte: qual è il desiderio dell’archeologo, nel senso più ampio del termine? Non è dare scacco al tempo? Dare scacco alla morte?[48]
Forse questo discorso ha qualcosa dell’acedia, dell’irraggiungibilità dell’oggetto, da parte del desiderio che pure lo brama, il discorso della cancellazione è il discorso del melanconico.
È per questo che i “resti”, qualcosa che ritorna nella psiche, può essere tutto quello che l’Io ha per resistere alla morte.
Aurora Gentile
auroragentile@libero.it
[1] Balsamo M. intervista ad A. Green, Il lavoro analitico e i suoi resti, Psiche 2/2002, p. 55.
[2] Ibidem.
[3] Assoun P.-L. (2005), La trace folle, in Destins des traces, Che vuoi?, n° 23, L’Harmattan, Paris, p. 85.
[4] “Può essere interessante sottolineare, nell’ambito della psicoanalisi contemporanea, ma non solo, visto che questo movimento è presente dagli albori della sua storia, come l’idea stessa di pluralità dei tempi, l’idea di un passato che non passa sia sottoposta a rifiuto o diniego: in questo senso non si discosterebbe da quel movimento del pensiero moderno che François Hartog ha chiamato “presentismo”, e che individua una concezione del tempo sganciata da ogni richiamo ad un’alterità della traccia, la cui preesistenza renderebbe vano ogni sogno di padroneggiare completamente il materiale clinico”, Balsamo M. (2006), Teoria, follia, metapsicologia, Statuto Epistemologico della psicoanalisi e Metapsicologia, Rivista di Psicoanalisi Monografie, Borla Roma, p. 206.
[5] Roussillon R. (1988), Négation, négativisme, négativité: les destins du reste dans la pensée de S. Freud de 1918 à 1925, in Pouvoirs du négativ dans la psychanalyse et la culture, Champ Vallon Seyssel, p. 100.
[6] Freud S. (1920), Al di là del principio di piacere, OSF, v. 9, pp. 229-232.
[7] Freud S. (1924), Il problema economico del masochismo, OSF, v.10, p. 12.
[8] Laplanche J. (1991), Il tempo e l’altro, Il primato dell’altro in psicoanalisi, La Biblioteca Bari- Roma, pp. 467-468.
[9] Ibidem, p. 469.
[10] Balsamo M. (2007), Genealogie del genealogico, inedito.
[11] Il termine riserva ha molteplici sensi: 1. Accantonamento motivato e configurato di scopi comprendenti l’utilizzazione eventuale o differita, nonché la destinazione, a occasioni, persone, con finalità determinate, talvolta anche con l’idea di una quantità soddisfacente o abbondante. (In particolare, in etnologia, zona interamente riservata a gruppi indigeni che vi conducono la loro vita tradizionale (famose le r. indiane negli Stati Uniti). 2. In senso astratto, condizione, limitazione o restrizione dell’assenso. 3. Nella stampa dei tessuti, sostanza usata per impedire al tessuto di assorbire in alcune parti le materie coloranti”, Devoto-Oli, Il Dizionario della Lingua Italiana, 2000 Le Monnier Firenze. Come non pensare alla conferenza di Warburg sulla sua esperienza presso gli indiani Hopi, svolta a Kreutzlingen, sul suo viaggio di ventisette anni prima, conferenza che doveva mostrare ai medici curanti di aver superato la malattia per la quale era stato costretto a soggiornare nella clinica cinque anni? (Ludwig Binswanger Aby Warburg, La guarigione infinita, 2005 Neri Pozza Vicenza).
[12] Fédida P. (1978), La relique et le travail du deuil, L’absence, Gallimard Paris, p. 53.
[13][13] “In questo senso, Freud ha ragione di mettere l’accento sul premio narcisistico che, una volta troncato il legame con l’oggetto annientato, la realtà finisce per accordare a chi è in lutto, vale a dire il vantaggio riconosciuto di “rimanere in vita” [Freud S. (1915) Lutto e melanconia, Metapsicologia, OSF, v. 8, p. 115], di conservare se stesso. Inversamente, com’è noto, l’evento psicotico può sopraggiungere sia come negazione della realtà che consente una conservazione immaginaria dell’oggetto perduto in un investimento allucinatorio, sia come brutale irruzione della morte (suicidio, o assassinio) nella vita di chi resta”, ibidem, p. 54.
[14] Balsamo M. (2000), Freud et le destin, Voix Nouvelles en psychanalyse, PUF, Paris, p. 256.
[15] Loraux N. (1992), Éloge de l’anachronisme en histoire, Les voies traversières de Nicole Loraux. EspacesTemps Les Cahiers Clio 87/88 2005, p. 137.
[16] Balsamo M. (1998), Ai margini della psicoanalisi, il destino, in Balsamo M. et al. Sessuale, destino, scrittura, Milano, Franco Angeli, 1998, p. 43.
[17] Warburg descriveva il suo Atlante (Mnemosyne L’atlante delle immagini, a cura di Maurizio Gelardi, 2002, Aragno, Torino) come un lavoro sull’”iconologia dell’intervallo” in cui il vuoto era un Denkeraum, un genere di pensiero in cui è possibile far vivere un legame tra il presente e l’inizio della storia.
[18] Didi-Huberman G. (2000), Devant le temps, Les Editions de Minuit, Paris, p. 33. Sul concetto di Pathosformel che designa un indissolubile intreccio di una carica emotiva e di una formula iconografica, in cui non è possibile distinguere tra forma e contenuto, è interessante l’articolo di Giorgio Agamben “Aby Warburg e la scienza senza nome”, in La potenza del pensiero, 2005, Neri Pozza Vicenza, p. 125.
[19] Fédida P. e al. (2007), Humain/déshumain, Petite Bibliotheque de psychanalyse, PUF, Paris.
[20] Probabilmente, perché il Seminario stesso è traccia imperfetta di una parola che ci sfugge. Pierre Fédida è scomparso repentinamente e prematuramente il 1° novembre 2002.
[21] Didi-Huberman G. Devant le temps, op. cit.
[22] Didi-Huberman G. (2002), Ninfa Moderna. Saggio sul panneggio caduto, Il Saggiatore, Milano 2004.
[23] “Je tente, par cette formule, de synthétiser autant qu’il est possible un ensemble de propositions théoriques dont beaucoup se sont formées dans un dialogue avec la pensée de Pierre FEDIDA (cf. notamment Crise et contretransfert, Paris, PUF 1992)”. [tr. it. Crisi e controtransfert, 1997, Borla Roma]. Didi-Huberman G. (1998), Prefazione a Michaud P.-A., Aby Warburg et l’image en mouvement, op. cit.
[24] Didi-Huberman, Prefazione a P.-A. Michaud, Aby Warburg et l’image en mouvement, op. cit. p. 16.
[25] Balsamo M. Teoria, follia, metapsicologia, op. cit. Rosolato G. (1978), La relation d’inconnu, Gallimard, Paris.
[26] Freud S. (1906), Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di Wilhelm Jensen, OSF, v. 5, p. 290.
[27] Aby Warburg definì “ninfa”, “fanciulla avvolta in una stoffa dalle pieghe nettamente marcate”, un’entità che attraversa i secoli: esisteva già nei tempi antichi, com’è attestato in certi bassorilievi. Il Rinascimento la fa rivivere. Aby Warburg la isola, accentuando l’importanza dell’ondeggiamento del panneggio che la ricopre, e ne deduce che “il fatto artistico, quando mira alla rappresentazione dell’uomo, non è altro che il flusso della causalità che si riproduce ancora una volta alla superficie delle cose”, Philippe Alain Michaud, Aby Warburg et l’image en mouvement, op. cit. p. 26.
[28] Didi-Huberman G. (2005), Gestes d’air et de Pierre, Corps, parole, souffle, image, Les Éditions de Minuit, Paris. Una parte di questo testo è stata pronunciata all’Università di Paris VII-Denis Diderot, nell’ambito di un Omaggio a Pierre Fédida (15 novembre 2003). Attraverso l’opera – psicoanalitica, filosofica e, in un certo senso, poetica – di Pierre Fédida, questo testo interroga il modo in cui un pensiero dell’assenza può produrre una teoria dei rapporti tra corpo, parola, soffio e immagine: una teoria del “soffio indistinto dell’immagine”. Approccio paradossale, che è la sorprendente scoperta di affinità dell’aria e delle pietre, della danza e della sepoltura, dell’arte e della genealogia. Un modo d’interrogarsi sulla respirazione del tempo nell’immagine.
[29] Assoun P.-L. (2005), Métafore et métapsychologie. La raison métaforique chez Freud, Passion de la métafore, Figures de la psychanalyse, n°11, Éres, Ramonville Saint’Agne, pp. 19-33.
[30]Bowie M. (1987), Freud, Proust et Lacan, L’Espace Analytique, 1988, Denoël, Paris.
[31]Freud S. (1896), Etiologia dell’isteria, OSF, v. 2, p. 334.
[32]Freud S. (1915), Introduzione alla psicoanalisi, 24, OSF, v. 8, p. 542 e Risultati, idee, problemi, v. 11, p. 565.
[33]Fédida P. (1978) L’absence, op. cit. p. 9.
[34]Winnicott D.W. 1963), La paura del crollo, Esplorazioni psicoanalitiche, 1995, Cortina, Milano, p. 105.
[35]Fédida P. (1978), Le vide de la métafore et le temps de l’intervalle, L’absence, op. cit. p. 214.
[36]Fédida P. (1989) Dibattito a proposito di “Temporalità e traduzione” di Jean Laplanche, in Laplanche J. (1967-1992), Il primato dell’altro in psicoanalisi, 2000, La Biblioteca Roma-Bari, p. 439.
[37] Fedida P. “L’epos. Passé anachronique et présent réminiscent”, L’Écrit du temps, 1985, pp. 23-45.
[38] Cfr. il lavoro “Théorie des lieux”, in P. Fédida, Le site de l’etranger, 1995, PUF, Paris.
[39] Freud S. (1929), Il disagio della civiltà, OSF, v. 10, p. 562.
[40] Ibidem, pp. 562-563.
[41] Laplanche J. (1981), La psicoanalisi: storia o archeologia? Il primato dell’altro in psicoanalisi, op. cit. p. 258.
[42] Freud S. (1908), Il poeta e la fantasia, OSF, v. 5, pp. 378-379.
[43] Freud S. (1937), Costruzioni nell’analisi, OSF, v. 11, p. 541.
[44] Fédida P. Humain/déshumain, op. cit. pp. 23-24.
[45] Beetschen André, Un rendez-vous annuel, in Le primitif, que devient la regression? APF/annuel 2007, p. 13. Si tratta dell’introduzione ad un seminario della APF svoltosi a Parigi nel gennaio 2006, che è stato anche un omaggio all’opera di Pierre Fédida.
[46] André J.(2007), Le mort dans l’âme, in Humain-déshumain, op. cit. p. 128.
[47] Lettera a Fliess del 17 dicembre 1894 [Minuta G], in Freud S. Epistolari, Lettere a Wilhelm Fliess1887-1904, pp. 124-129.
[48] Laplanche J. (1981), La psicoanalisi: storia o archeologia?, Il primato dell’altro in psicoanalisi, op. cit. p. 258.